Poco prima dell’arrivo di Venezia, il Friuli presentava un organizzazione istituzionale e sociale particolare. L’economia dei centri cittadini era debole, lontana dallo sviluppo che i Comuni avevano nel resto dell’Italia settentrionale e centrale. La circolazione di merci e denaro e le attività manifatturiere non erano cresciute per difetto di spinte propulsive.
L’economia agricola, d’altra parte, non aveva avuto alcuna particolare evoluzione perchè frenata dal radicamento del sistema feudale che manteneva le modalità di coltura del passato.
Il maso era la struttura aziendale prevalente e nel Basso Medioevo essa garantiva sia l’autosufficienza della famiglia contadina, sia la rendita al proprietario che lo dava in locazione.
Dopo il flagello della peste del 1300, il maso aveva garantito la coltivazione dei fondi nonostante il calo demografico. Il presupposto di questo sfruttamento delle risorse della campagna era la fissità dei contratti di concessione. In cambio il massaro aveva l’autonomia della gestione del fondo e poteva contare sulla sua stabilità sul maso stesso per più generazioni; mentre la possibilità di uno sfrattamento, per mancato pagamento dei censi, era una rara eccezione.
Accettando la permanenza sul maso dei massari inadempienti, il signore proprietario richiedeva in cambio prestazioni lavorative extra sulle terre dominicali e rinforzava i vincoli di vassallaggio. Non poteva invece pretendere dai massari un aumento dei canoni stabiliti, né poteva trarre alcun beneficio dalle migliorie apportate dai massari stessi ai terreni.
Le mutate condizioni economiche, se pur lente, e la necessità di incrementare le proprie rendite per rinforzare i castelli, o per mantenere il palazzo cittadino, o il proprio presidio armato, spingeva i signori a pretendere di più. Per tutte queste iniziative padronali diventava fondamentale la riorganizzazione del possesso fondiario e la revisione dell’antico regime contrattuale.
L’orientamento verso la trasformazione dei vecchi contratti perpetui in contratti a termine, revocabili, e la possibilità di elevare i canoni, soprattutto dove i massari e i contadini avevano apportato migliorie, portò la nobiltà castellana a promuovere nuove leggi. Ciò fu possibile grazie al controllo dei nobili signori sull’assemblea del Parlamento Friulano.
Queste iniziative incontrarono ovviamente una dura opposizione da parte dei contadini ma anche da parte del Governo Veneziano.
I contrasti tra proprietari e coltivatori portarono a feroci tensioni sociali. La situazione si complicò ulteriormente tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 per una serie di calamità naturali e di annate agrarie sfavorevoli. Le condizioni di vita nelle campagne peggiorarono a causa delle devastazioni dovute alle scorerie dei Turchi e dei vari eserciti in armi.
Molti contadini furono costretti a chiedere prestiti ai loro signori o agli usurai, indebitandosi sempre più.
Nel 1475 il Governo Veneziano estese al Friuli provvedimenti che impedivano ai creditori il sequestro per debiti di animali, attrezzi da lavoro, carri, letti su cui i contadini dormivano. Prima di queste normative i signori feudali potevano applicare ai contadini insolventi norme pesantemente vessatorie, fino ad arrivare alla prigione.
Il malcontento diffuso nelle campagne, prima della rivolta contadina del 1511, aveva una base economica ma era sostenuta anche da rivendicazioni riconducibili a norme sociali e valori.
C’era la convinzione che la nobiltà castellana tradisse sia le consuetudini tradizionali sia le relazioni tra signori e sudditi, che avevano rappresentato i principi regolatori della società tradizionale, basata su una reciprocità di diritti e di doveri.
La Rivolta Contadina del Giovedì Grasso o Crudel Zobia Grassa del 1511 non può ricondursi solo a lotte tra fazioni nobiliari o invidie contro le prerogative feudali. Ciò che veniva messo in discussione dai contadini era l’uso illegittimo di nuovi poteri signorili e iniziative unilaterali dei feudatari che negavano i diritti di autonomia delle comunità.